(Premessa: contiene enormi spoiler sulla trama del gioco con il quale ho inconsapevolmente assestato un colpo da ko all’innocenza di mia figlia. Se lo avete adocchiato e siete interessati a giocarlo, evitate di leggere da “INIZIO SPOILER” in poi, se invece avete interesse ad evitare lo stesso errore e volete migliorare la credibilità del vostro essere figura paterna, potete anche procedere nella lettura)
Prima di iniziare, facciamo un breve salto nella psicologia di un padre che ha vissuto in prima persona la prima fase della storia dei videogiochi moderni. Il mio background videoludico da ragazzino è stato abbastanza intenso, inevitabilmente segnato da quelle che poi sono divenute icone universalmente note nel tempo: negli anni ottanta i draghetti di Bubble Bobble (poi ripudiati nella versione per casalinghe isteriche di Puzzle Bobble. Io mi smazzo l’adolescenza per superare cento livelli , lottando contro nemici di ogni tipo… e poi vi riducete ad invecchiare muovendo un argano e cercando di colpire palline colorate?”) e negli anni novanta le gesta di Guybrush Threepwood, temibile pirata (TM), della saga di Monkey Island.
E pur cosciente dei ricordi adolescenziali in cui gli adulti mostravano grande considerazione delle nostre passioni legate ad una console (“Ma smettetela di giocare sempre davanti alla tv e uscite! Trovatevi una ragazza!“, frase udita con cadenza quasi quotidiana nelle mie visite estive a casa di un amico), ho sempre creduto che i videogiochi, se ben usati, possono sviluppare il pensiero delle giovani menti, migliorarne la capacità di reazione, prepararli alla necessità di fare delle scelte, ecc.
Non nego, infine, che l’idea di trascorrere oggi del tempo condividendo con i figli l’esperienza di un gioco non possa che rendere più saldo il nostro rapporto, inserendo ulteriori punti in comune nel loro percorso personale di crescita.
Bene, fatte queste premesse, ecco un breve esempio di applicazione totalmente sbagliata dei concetti fin qui esposti (INIZIO SPOILER).
“Papo & Yo”, giocato con la figlia maggiore, anni 8 all’epoca degli eventi.
Ore complessive di gioco: 16
Occasioni di piagnucolamento serale procurate: 32
Notti insonni finite nel lettone ad agitarsi con i piedi sulla faccia di papà: 2
Grandi interrogativi sulla vita posti per la prima volta: 5. Genitori alcolizzati, abbandono, violenza, separazione, sacrificio.
Rimbrotti coniugali: n.d. (parecchi, comunque)
Locandina del videogame
Immaginate di vedere il trailer di un bambino in una favelas, che corre felice, salta fra le case, disegna con il gesso glifi che prendono vita e disegnano nuovi percorsi attraverso i quali giocare insieme ad una bambina dal viso colorato e il fido robottino Lula, che ci permette di volare da un edificio all’altro.
Colori bellissimi, musiche brasiliane… tutto molto accattivante per essere il primo gioco che farò fare interamente alla mia bambina. Poi c’è il titolo che parla di padri… cosa volere di più? Abbocco come un pesce sbalordito e… ok, fa al caso mio, lo prendo!
Il video iniziale in cui si vede Quico, il protagonista del gioco, in carne e ossa che si rifugia in una stanza isolata per non sentire le urla del padre accende un piccolo campanello d’allarme, ma viene superato senza troppi problemi, non appena Quico scopre un passaggio segreto che lo porta in un mondo fantastico.
Le prime fasi di gioco rispecchiano fedelmente ciò che prometteva il trailer. Un mondo bellissimo e colorato, un trionfo dell’immaginazione, un affresco sociale che ti mostra come si può giocare e vivere felici anche in una favela. Insomma, tutto bene. Finora.
Le case fluttuanti di Pandor… ehm… le case fluttuanti e basta.
Finché il piccolo Quico e mia figlia, da novelli Bastian e Atreiu, non incontrano per la prima volta il mostro. Un godzillone rosa sovrappeso, pacioccoso e bicornuto, che si muove stancamente da una scena all’altra, solo se stimolato dal protagonista. Il gioco è facile, in alcuni tratti divertente e la mia cucciola sembra cavarsela benissimo sotto lo sguardo compiaciuto di papà.
Poi arrivano le rane. Al mostro piacciono tanto le rane, impazzisce letteralmente per le rame. Ogni volta che ne mangia una diventa un pelino irascibile e attacca Quico, che deve cercare di distruggerle prima che il mostro ci arrivi. E se il mostro vede il piccolo Quico distruggere una rana, diventa ancora più arrabbiato, prende fuoco e si lancia all’inseguimento.
questa scena delle rane è arrivata all’improvviso, così come inaspettata è giunta l’incandescenza del mostro. Lo sguardo di mia figlia è passato dal divertito al terrorizzato in pochi secondi mentre cercava, battendo con le minuscole dita sulla tastiera del pc, di mettere in salvo il suo personaggio. Appena ci è riuscita, non prima che il mostro abbia cercato di masticare Quico bruciacchiandolo due volte, si è distesa sul vicino divano ed è scoppiata in un pianto improvviso che ha richiamato la madre e messo me direttamente sul banco degli imputati con una sfilza di capi d’accusa che farebbe impallidire un serial killer con anni di onorata attività alle spalle.
Il gioco è cambiato dal giorno alla notte nel giro di pochi istanti, senza prima aver lanciato alcun segnale in tal senso e ci siamo trovati entrambi impreparati. E’ stata la stessa sensazione provata a metà del film “Dal tramonto all’alba”, nel momento in cui una ballerina sul tavolo si trasforma in vampiro molesto, facendo radicalmente cambiare genere al film.
Dopo qualche secondo di riflessione, ho collegato gli eventi. Il mostro raffigura il padre violento (e io che pensavo che il titolo si riferisse al meraviglioso rapporto che può legare il padre e la figlia), le rane rappresentano le bottiglie di alcolici e l’incandescenza era la rabbia derivante dalle crisi di astinenza, durante le quali il padre neanche riconosce il suo ruolo e cede solo al suo puro istinto. Concetti complicati per la piccola di 8 anni, che però ho cercato di spiegarle, nei tre giorni successivi in cui non ha voluto neanche passare davanti allo schermo del pc, con tutto il tatto possibile, convinto che nascondere la realtà non sia sempre la migliore soluzione, finchè non mi ha nuovamente chiesto di continuare.
Una volta compreso il dramma che si consumava all’interno del videogioco e soprattutto aver scoperto che esistono anche dei genitori “cattivi”, si è dimostrata più matura, scoprendo da sola il significato di ulteriori metafore.
Ma il gioco aveva in serbo ancora due colpi bassi e il colpo del ko, quello che in gergo si chiama “carico da undici”. I primi due sono arrivati nello stesso pomeriggio d’estate.
Il primo riguarda Lula, il fidato robottino di Quico, che si sacrifica per lui, consentendogli di superare una situazione senza uscita e finendo per allontanarsi scagliato fra le nuvole in una scena di teatrale lentezza. Musica da melodramma, filmato da brividi sui ricordi di gioco passati insieme ed un urlo straziante (“Lulaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa…”) durato circa due minuti.
Lula è andata. Perchè abbandonarla semplicemente fra le nuvole, quando è possibile piazzare nel gioco un bel funerale?
Non bastasse la triste fine di Lula, che simboleggia il distacco dalla fanciullezza, la necessità di aver a che fare con il mondo reale, dove c’è un padre alcolizzato e che, nel secondo momento di grande delicatezza dell’autore (che pare si sia basato su una storia vera. La sua), riduce la sorella del protagonista in fin di vita per avergli sottratto le rane.
Così facendo, la mia cucciola, ormai decisa a finire il gioco nonostante le enormi mazzate psicologiche che stava ricevendo giorno dopo giorno, si ritrovò a cenare singhiozzando, dicendo alla madre “Mi manca Lula!” e ricevendo in cambio uno sguardo perplesso, e picchiando successivamente il fratellino in segno di solidarietà con il protagonista (ok, probabilmente si sono azzuffati per altro, ma non si può escludere scientificamente un nesso di causalità fra i due eventi).
Senza Lula e con la sorella in fin di vita, il protagonista viene spinto sempre di più a cercare la possibilità di relazionarsi con il mostro, ma non ci riuscirà, e nonostante svariati tentativi, il mostro continuerà sempre ad inseguire le rane, poi tramutatesi anche nel gioco in bottiglie reali – segno della progressiva maturazione e consapevolezza del problema da parte di Quico.
La scena finale (il carico da undici di cui sopra) è ovviamente da brividi, in grado di lasciare il segno persino in un adulto, figuriamoci in una bambina. Messo alle strette, il mostro deve scegliere fra il figlio e la bottiglia: guarderà per una volta il figlio, alternando nella scena diverse volte il volto reale del padre e il volto del mostro, ma poi sceglierà di dirigersi verso la bottiglia, addormentandosi soddisfatto poco dopo.
Così Quico capisce che non c’è più speranza di recuperare il padre, e dovrà andare avanti senza di lui. La metafora visiva è ancora più crudele della conclusione: Quico spinge il mostro giù dalla città immaginaria sopra le nuvole, lasciando che precipiti in basso e scompaia lentamente nel nulla abbracciato alla sua bottiglia.
Adios, Papo!
Fine della storia. Nella sequenza video finale, Quico esce dalla stanza, scappa di casa fra le urla del padre e corre via felice sotto lo sguardo della sorella nei titoli di coda.
Più ci penso, più mi rendo conto che è incredibile, per la prima esperienza di videogioco “vero” della mia bambina ho scelto inconsapevolmente un caso più unico che raro di “gioco drammatico”.
Sia chiaro, un gioco molto bello, particolarmente significativo e davvero ben fatto, interessante e profondo. Ma decisamente inadatto per una bambina di quell’età (C’era un 10+ sulla copertina, banalmente ignorato nella speranza che due anni di differenza rispetto all’età consigliata fossero colmabili condividendo l’esperienza con un adulto).
Conseguenze? Racconto un breve episodio: la cucciola mi scoppia in lacrime una notte di Ottobre, a oltre 3 mesi dalla conclusione del gioco. Dopo oltre mezzora di attività consolatoria in cui noi genitori svegliati di soprassalto brancolavamo nel buio (“Perchè starà piangendo? Un brutto voto a scuola? Si è rotta una bambola? Ha perso una sorpresina dell’happy meal dal valore inestimabile?”), si rivolge a me e mi abbraccia fortissimo. “Papà, non ti voglio far cadere dalle nuvole! Non riesco a dimenticare Quico che ha spinto suo padre!” E giù lacrimoni a forza 5.
Morali della favola:
- Mai comprare videogiochi in cui i figli decidono di uccidere metaforicamente i padri.
- Se sulla cover di un videogioco c’è scritto 10+, non è il voto.
- Le rane generano dipendenza.
Titoli di coda
P.s. Ho imparato la lezione? Lo scoprirete successivamente con “Brothers: a tale of two sons“, ovvero come introdurre una storia di malattia, avventura, tentazioni, sacrificio, devastazioni, amore fraterno e morte ad un bambino di appena 5 anni.
Morale n.4:
Principio della Par Condicio: se devasti inconsapevolmente la psiche di un figlio, non puoi evitare di rifarlo anche con il secondo.
Comments
Non ho letto la parte spoiler perché aspetto di capire se ti è piaciuto oppure no…. Cmq già è bastata la prima parte per farmi scompisciare 😂
Author
Si, al di là delle implicazioni socio-educative, è fatto abbastanza bene. Ma ti consiglio “Brothers”, che cito alla fine: è un capolavoro assoluto
Quando ho visto comparire tra le novità dei blogger di WP che sto seguendo un tuo nuovo pezzo, mi sono incuriosito e ci ho dato un’occhiata subito, pensando in modo un po’ sadico di vedere ora, con la novità già trascorsa dei festeggiamenti mondiali (anche un po’ troppo frastornanti) per l’anniversario di “Back to The Future”, cosa riservavi per i tuoi lettori… perché il vero banco di prova per giudicare bene un autore, non è mail il primo libro o il primo film o il primo LP di successo (nel caso di un gruppo pop), ma il secondo, quello che viene dopo quello che ha riscosso tanto gradimento.
Eh, si, il “secondo pezzo” è in genere un momento di crisi, perché si è meno spontanei (per paura di deludere chi, entusiasta della prova precedente, ci chiede sempre di più) e si cerca di non replicare ma di rinnovare il successo…
Questo ovviamente è un discorso che non vale se si ha la stoffa e tu ce l’hai: il tuo articolo è semplicemente fantastico e ti dico subito che è uno dei 10 più belli che ho letto quest’anno su WP (compresi i blog statunitensi che seguo assiduamente).
Non perdo nemmeno tempo per cercare di capire perché sia andata così ed anche se lo scoprissi non te lo direi, per non rovinare quell’alchimia fatta di spontaneità e pacatezza, di ricerca formale mista a genuina voglia di scrivere e comunicare, una sorta di misura aurea che mi ha permesso di seguirti lungo tutta la tua esposizione e di appassionarmi, persino, alla doppia vicenda dei personaggi del videogame, sia a quelli della vita reale, ossia te e tua figlia.
Un capolavoro di pezzo che meriterebbe di uscire su Wired al posto di tanta merda che si legge.
Un’ultima considerazione: non c’è nemmeno una riga o una semplice frase che puzzi di copia&incolla o di riciclato e questo, ti assicuro, è una rarità nel nostro mondo di blogger, specie se si comincia a sfornare più pezzi alla settimana…
Ancora complimenti, davvero.
Author
Bene, allora ho superato la prova del secondo pezzo. Spero di non deluderti troppo in futuro (entro il weekend uscirà il terzo capitolo di Redeyes), i tuoi complimenti mi fanno molto piacere, soprattutto considerando il livello qualitativo del tuo blog.
Pensa che ieri sera, mentre ero con amici in casa, ho preso il mio portatile, mi sono messo sul divano ed ho cominciato a leggere a voce alta il tuo pezzo… è stato bellissimo!
Tutti hanno apprezzato e qualcuno, sorridendo, mi chiedeva se c’erano altri pezzi da leggere ed io, sornione, ho risposto “con calma, con calma, arrivano, tranquilli… chi mette fretta non ottiene mai il massimo…”.
Grazie ancora per i bei momenti che ho condiviso con gli altri!
Wow… sono senza parole.
Non mi piacciono i videogiochi e le mie esperienze sono ferme a Space Invaders (quelle vecchie), e a Tetris (più recenti).
Mai fatto una partita con la playstation e mai giocato a FIFA, nonostante l’ormai acclarata dipendenza da calcio giocato e visto.
Sono obsoleto? Può darsi, ci potrebbe stare.
Perdonami Alfredo… ma preferisco ancora Subbuteo, Risiko e Trivial. Se solo trovassi qualcuno con cui giocare.