(in realtà il capitolo 3 nasce come un unico capitolo insieme al già pubblicato 2 e al successivo capitolo 4. Purtroppo il tempo per la rielaborazione – che sta pian piano diventando riscrittura – è davvero poco, quindi… )
Capitolo 3
Il sole del 24 Aprile 1994 era sorto da qualche minuto fra le foglie dei piccoli arbusti che ostruivano la vista della spiaggia deserta di Cape Cod e quell’aria fresca del mattino insieme al profumo dei fiori che adornavano le villette in primavera, mi riportò alla mente gli stessi odori e sapori che sentivo due anni prima a Porto Rico.
Già da qualche tempo, mi ero imposto di badare alla mia forma fisica con regolarità: se il tempo variabile del periodo lo permetteva, ogni domenica mattina il percorso prevedeva la partenza da casa a North Chatham e l’arrivo a Fox Hill, una collinetta piena di alberi collegata alla terraferma da una lingua di sabbia che ricorda un piccolo Mont Saint-Michel. Giunto alla meta, mi accontentavo di sedere sotto il grande albero a rifiatare per qualche minuto prima che iniziasse l’andirivieni dei piccoli aerei da turismo che allontanavano i benestanti newyorkesi dalla caotica vita della Grande Mela diretti al piccolo aeroporto privato della città. Era il segnale che la giornata stava iniziando e la tranquillità del posto avrebbe lasciato spazio a varie forme di umanità che trovavo chiassose ed irriverenti nei confronti della bellezza che la natura ci aveva regalato.
Il tragitto diretto fra la mia casa e Fox Hill prevedeva invece una nuotata di duecento metri in acque generalmente fredde che decisi di affrontare per la prima volta l’estate successiva. Per il momento mi accontentavo di correre attorno alle insenature di Ryder’s Cove e Crows Pond, un percorso di 10 km circa fra andata e ritorno, che percorrevo in solitario, dedicandomi a riordinare le idee sulla settimana appena conclusa e quella che stava per iniziare.
Erano passati oltre venti mesi dalla mattina in cui Pedro mi raccontò che vide Manuel venire a casa sua con Juanita, tenendola per mano da una parte ed impugnando una pistola nell’altra. Porto Rico e il ricordo dei suoi pericoli non erano sbiaditi per nulla; pensavo a ciò che avevo vissuto laggiù ogni notte, tanto che cambiai radicalmente vita, ricercando quella tranquillità che mai prima mi era sembrata così affascinante ed appagante. Anche fisicamente c’erano dei miglioramenti evidenti: l’eccesso di pancia era sparito, lasciando spazio ad un ventre quasi piatto; avevo smesso di fumare e limitato l’uso di alcolici a rari momenti di convivialità; avevo persino tolto l’orecchino a ciondolo nero, che tuttora mi chiedo come abbia mai potuto avere il coraggio di indossarlo.
Cercai appositamente un lavoro privo di responsabilità, qualcosa che mi lasciasse la mente libera alla fine della giornata. Finii per fare il macellaio presso un ipermercato a Barnstable: l’orario di lavoro era regolare, così come i pagamenti da parte dell’azienda. Mi resi conto giorno dopo giorno che lavoravo volentieri e si vociferava già di una possibile promozione a caporeparto.
Nonostante la zona fosse prettamente residenziale, vivevo in una villetta senza troppe pretese, eredità dei nonni paterni che mi lasciarono poco più che adolescente. La casa era grande abbastanza per me, probabilmente troppo piccola per un nucleo familiare. Il vicinato era composto da famiglie tranquille: di sicuro nell’intera Court Street, l’unico ad aver avuto una storia movimentata era il sottoscritto.
Come ogni domenica mattina, al rientro a casa dopo la sessione di jogging mi aspettava l’accoglienza festosa e scodinzolante del pastore tedesco al quale avevo assegnato l’esclusivo ruolo di presenza stabile e fissa nella mia vita. Lo presi poche settimane dopo il mio ritorno, chiamandolo senza indugi Blatter, proprio come l’allora Segretario Generale della Fifa, del quale si parlava sempre più spesso in vista dei mondiali di calcio che sarebbero iniziati proprio negli Stati Uniti l’estate successiva.
Blatter era davvero uno splendido esemplare: aveva il pelo lungo, un’innata precisione negli orari delle sue attività – svizzera per l’appunto, come l’origine del suo nome -, lo sguardo fiero e i denti forti abbastanza da garantirmi sicurezza per la custodia della casa. Quel giorno indossava un buffo cappellino da festa a forma di cono che sembrava aver gradito e per l’occasione si dimenava, felicissimo, scodinzolando attorno ad un “semprinpiedi” a forma di gattino sacrificale, un macabro divertimento canino che ritornava sempre in posizione eretta dopo ogni botta ricevuta.
Mentre buttavo giù qualche boccone di una colazione volutamente sana e quindi volutamente poco appetitosa, mi resi conto che il mio sguardo veniva rapito spesso da un quadro appeso alla destra del camino, acquistato qualche mese prima da un pittore di strada in una fiera di Boston. Esso, molto ben rifinito nei dettagli tanto da sembrare in lontananza una foto, raffigurava una famiglia di pionieri attorno al fuoco, con la particolarità che tutti i personaggi presenti avevano i volti spenti ed adombrati, con il carro malandato e i vestiti sgualciti a completare l’effetto decadente dell’immagine.
Mi spostai sul divano per riposarmi un po’, con lo sguardo che tornava sempre più spesso verso quel quadro. Quando lo acquistai non ebbi l’impulso di chiedere spiegazioni all’autore sullo stato d’animo che lo spinse a raffigurare dei protagonisti così dimessi; nel tempo mi chiesi se il quadro stesso mi nascondesse qualcosa, come se quei personaggi stretti intorno al calore della fiamma mi celassero un messaggio che io avrei dovuto, in qualche modo, interpretare. Così facendo, complici la stanchezza accumulata, la levataccia e qualche minuto di tregua nelle attività di Blatter, la contemplazione del quadro si tramutò in gradevole pennichella mattutina.
La quiete finì improvvisamente, quando fui svegliato da un rumore all’esterno della casa. Blatter smise di scodinzolare e si voltò minaccioso verso l’ingresso. Quindi iniziò a ringhiare e puntò il muso in direzione della porta. Un istante dopo, si girò verso la parete adiacente e, come una scheggia, si spostò verso la finestra. Fermatosi sotto di essa, cominciò ad abbaiare con una certa insistenza.
Mi allarmai, rivolgendomi al cane: “Cosa c’è? Hai sentito qualcosa di strano?”. Ovviamente non mi rispose, ma restò sotto la soglia della finestra muovendo la testa con le orecchie dritte attorno al cappellino a cono come a cercare di seguire un movimento, senza perderlo di vista.
Sospettoso, mi avvicinai alla finestra che dava sul vialetto laterale, senza vedere nulla di diverso dalla piccola siepe e la staccionata che separano la mia casa dal vicino. Mi sporsi all’esterno e non vidi nulla di particolare, o quantomeno nulla che fosse strano vedere in una domenica di aprile: il vicino, il burbero signor George Smith e sua moglie Myriam che, inginocchiati per terra, sistemavano insieme le aiuole, i loro chiassosi figli in bici, un paio di uccelli che sembravano litigare o amoreggiare sugli alberi nel retro.
Blatter si acquietò e tornò presto al suo gingillo basculante, mentre io andai a fare una doccia e tutto in breve tempo tornò alla normalità.
Il resto della giornata passò in maniera molto tranquilla, tra la replica del Superbowl con il recente trionfo dei Dallas Cowboys e alcuni lavoretti domestici, come la sistemazione del garage e il montaggio della nuova scaffalatura acquisita per dare una parvenza di normalità a quell’ambiente solitamente caotico.
Nel pomeriggio portai in casa una scatola che non aprivo da qualche mese con l’intenzione di sfogliarla dopo cena, abbandonandomi alla nostalgia. Così, all’imbrunire, mi preparai un bel panino molto meno sano della colazione del mattino e mi gettai, stanco, sul divano.
Blatter ad un tratto riprese ad abbaiare, girando per la stanza in modo molto nervoso e poi, cominciando nuovamente a puntare verso la porta. Iniziò, quindi, a ringhiare, come al mattino. Diedi meno peso alla cosa, anche se eravamo già al tramonto e se ci fosse stato qualche malintenzionato in giro, avrebbe potuto avere la vita un po’ più facile. Così mandai subito fuori Blatter spalancandogli la porta d’ingresso e lui, impavido, si fiondò come un razzo nel giardino.
Abbaiò molto forte intorno alla casa; lo sentii prima lungo tutto il lato sinistro del perimetro sinistro e quindi nel retro. Poi tutto cessò, abbastanza improvvisamente; Blatter evidentemente aveva raggiunto ed intimorito il suo obiettivo che, verosimilmente e indipendentemente dalle buone o cattive intenzioni, in quel momento se la stava dando a gambe levate.
Passò del tempo, qualche minuto, senza che Blatter rientrasse trionfante in casa con in bocca il fondo dei pantaloni di qualcuno. Così l’intervento umano divenne necessario: raccolsi il coraggio necessario e mi armai di mazza da baseball e amuleto portafortuna, un dollaro con l’effigie di Zio Paperone che mi portavo dietro sin da ragazzino; ovviamente la chiamavo “Numero uno”. Ero conscio che fosse un gesto molto infantile, eppure in quei frangenti non riuscii ad essere particolarmente razionale.
I miei passi erano lenti e controllati, più per il timore che per la reale volontà di sorprendere silenziosamente un malfattore. Appena sull’uscio avvertii uno strano fruscio che proveniva dal lato sinistro della casa, lo stesso lato dove si era diretto impetuosamente Blatter.
Con circospezione, superai l’angolo alla sinistra dell’ingresso, dalla parte opposta rispetto al garage e mi avvicinai alla parte posteriore camminando lateralmente con le spalle protette dalla parete. Quella sera Court Street sembrava già deserta, a casa del vicino era tutto spento e l’illuminazione stradale forniva a malapena una fioca luce lontana.
Superato l’angolo, avvertii il fruscìo in modo ancora più distinto, mentre di Blatter non si vedeva alcuna traccia. Vidi il movimento fra i cespugli in fondo al cortile posteriore, in una zona appena illuminata dalle luci provenienti dall’interno della casa, vicino al capanno degli attrezzi, dal quale sembrava provenire un rumore di oggetti caduti. Afferrai con decisione la maniglia della porticina, la tirai di scatto e, con la mazza da baseball alzata nella mano destra urlai : “Chi va là?“.
Probabilmente questa frase dal tono medievale, urlata con voce poco decisa, lo sguardo spiritato e una mazza tenuta malissimo con la sola mano sinistra non sarebbero stati in grado di intimorire un pericoloso malintenzionato, forse l’avrebbero persino fatto ridacchiare. In realtà, Jessie, il gatto dei vicini, evidentemente rimasto chiuso dentro quel piccolo ambiente già dal primo pomeriggio, scappò in preda al terrore correndo a perdifiato ben oltre le capacità del mio sguardo.
La corsa folle del gatto mi fece sussultare, ma allo stesso tempo mi rassicurò: un gatto spaventato non rappresentava una minaccia reale alla mia incolumità. Mi restava ancora da trovare Blatter: sebbene più rilassato, completai il giro della casa con circospezione, senza notare nulla di strano; mi riavviai, infine, verso la porta d’ingresso.
Così trovai il mio Blatter teneramente seduto ai piedi del divano, con il muso sporco di ciò che sarebbe stata la mia cena e lo sguardo inevitabilmente soddisfatto.
“Via, Blatter! Cagnaccio cattivo!“ lo rimproverai duramente, anche se il giusto destinatario degli insulti probabilmente avrei dovuto essere io stesso, in quanto potevo e dovevo immaginare che sarebbe finita così. “Awn!” rispose lui piegando leggermente la testa e continuando imperterrito a masticare.
La mia ex cena, ormai ridotta a una poltiglia verdastra intrisa di saliva di pastore tedesco sazio, finì nel secchio dell’immondizia pochi secondi dopo. In preda allo sconforto alimentare mi sedetti sul divano, con la tv accesa su un canale all-news che raccontava di un attentato a Johannesburg al quale non prestai particolare attenzione, e misi una mano nella scatola che avevo ancora accanto al divano.
In essa erano scrupolosamente conservati tutti i ritagli di giornale che riguardavano direttamente o indirettamente momenti importanti della mia vita. Si andava dal pezzo del giornalino della scuola in cui si celebrava la mia vittoria al trofeo di tennistavolo ai vari articoli dei maggiori quotidiani nazionali in cui si raccontava di come un cittadino americano fosse finito in una scarpata a Porto Rico per motivi probabilmente legati ad un giro di scommesse clandestine.
Mi soffermai, infine, su un articolo del Tampa Bay Times, datato 25/04/1993. Mi fu inviato da Maria, l’infermiera con la quale restai in contatto. Certo, si trattava un contatto meno ravvicinato di quello che avrei desiderato anni prima, ma la fuga improvvisa non mi permise di approfondire a sufficienza il rapporto. Ero comunque convinto che prima o poi ci saremmo rivisti e che valesse la pena mantenere i rapporti cordiali. Il testo recitava:
“Un contrabbandiere portoricano di nome Manuel Gutierrez, ricercato dalle autorità locali per traffico di stupefacenti, è stato trovato morto ieri sera in un magazzino portuale a Tampa, FL. Il cadavere è stato rinvenuto in condizioni di avanzato stato di decomposizione. Non sono state rilevate, in base a quanto è finora trapelato, tracce di arma da fuoco. Si attendono ulteriori sviluppi.”
Ricordo bene la sensazione di soddisfazione quando mi giunse questa notizia, inutile negarlo. Sapere che Manuel fosse ancora in giro non mi rendeva tranquillo; dal giorno in cui appresi della sua morte i miei timori di essere nuovamente coinvolto nelle sue attività cessarono e la mia vita procedette senza dubbio più serenamente. Ciononostante, la rabbia per quello che successe non accennava a diminuire. Smisi presto di cercare Stella, è vero, e mi consolai pensando che lei stessa non volesse più saperne di me, ma il rimorso per averla coinvolta nelle trame di Manuel non cessò mai.
Trovavo curioso notare come mi ritrovassi spesso a pensare a lei, pur non essendone mai stato realmente innamorato. Era poco più che una giovane donna, “una delle tante” prima dell’incidente; divenne un mio pensiero fisso solo dal momento in cui non la vidi più.