Ci sono ricascato, per la terza volta.
Tutto è iniziato “appena” tre anni fa, quando scelsi il primo gioco per PC da fare insieme a mia figlia. Un gioco che apparentemente sembrava innocuo, dolce e colorato per poi mostrarsi improvvisamente per ciò che realmente era, sferrando un gancio micidiale alla sua innocenza degno del miglior Ivàn Drago ed introducendole, ad appena 7 anni, i concetti di violenza, dipendenza, alcolismo, distacco e infelicità, (il gioco era “Papo&Yo“, il racconto di quel primo disastro videoludico-genitoriale lo trovate QUI), spezzandone, anzi spIezzandone definitivamente l’innocenza; probabilmente se la avessi abbandonata “nei più malfamati bar di Caracas” (Cit.) avrebbe avuto traumi meno persistenti.
Pochi mesi dopo iniziai un altro gioco, “Brothers, a tale of two sons“, per il quale era necessario giocare in due in quanto i due giocatori avevano il controllo di due fratelli, i quali dovevano essere di supporto reciproco per poter proseguire nella storia. Bene, ambientazione da villaggio dei puffi, colori brillanti, personaggi simpatici e soprattutto la necessità di qualcuno che mi aiutasse a portare avanti la storia… insomma, c’erano tutte le condizioni ideali per far entrare mio figlio piccolo (5 anni) nel mondo dei gamers. Certo, avrebbe dovuto mettermi in guardia la locandina in cui i fratelli protagonisti pregavano al tramonto sulla tomba della madre, così come avrebbe dovuto insospettirmi lo scopo della missione, cioè trovare le medicine per il padre gravemente malato. Insomma, coinvolsi il mio figliolo a giocare questa avventura, peraltro piuttosto semplice, e fortunatamente, complice la sua tenerà età e la mia volontà a non spiegare nei dettagli tutto ciò che appariva a schermo, rimase imperturbabile nel momento in cui la storia diventò più intensa, con momenti di ansia, disperazione, spirito di sacrificio, amore fraterno, dolore, morte e… un momento sul finale del gioco con un messaggio emotivo devastante (SPOILER ENORME IN ARRIVO): in particolare, quando
… dopo la morte del fratello maggiore, il piccolo deve trovare la forza di affrontare da solo le sfide che prima riusciva a superare grazie all’appoggio del fratello. L’espediente utilizzato dai progettisti del gioco però è qualcosa di mai visto prima: per poter andare avanti era necessario interagire come se il maggiore fosse ancora vivo, utilizzando comunque i suoi tasti di controllo, pur in assenza fisica del personaggio. Una bomba atomica emotiva che non può che lasciarti di sasso.
Insomma, in entrambe le occasioni, al di là delle mie dabbenaggini genitoriali, il videogioco si è dimostrato solo un pretesto per raccontare una storia, una splendida storia.
Chi non conosce il mondo dei videogiochi, lo guarda con distacco, pensando spesso che sia esclusivamente un passatempo da ragazzini; purtroppo questa è una convinzione fortemente radicata nelle menti di chi non ha vissuto questa passione e che mai ha avuto un approccio diretto con questi prodotti. In realtà tutta una serie di videogiochi denominate genericamente “avventure grafiche” è una versione di Entertainment che può tranquillamente competere con una serie TV, una serie di film o di libri, la cui unica differenza è la richiesta di interattività del giocatore che ne diventa protagonista, raggiungendo, quando la storia è ben raccontata come in questi casi, una grandissima empatia con il personaggio.
Chi si approccia a questi prodotti deve saltare il fosso, abbattere il muro di pregiudizi e lasciarsi trasportare dalla storia che viene raccontata.
Se ci riuscirete, sarete pronti per Life is Strange.
Il processo di identificazione per me è stato facile: sono solo, lontano da casa per lavoro, senza tv tradizionale, con un notebook poco performante preso esclusivamente ai fini di “aggiornamento professionale“, che non mi permette l’accesso ai grandi titoli del settore (per intenderci, un blockbuster dell’industra dei videogiochi come “Rise of the Tomb Raider“, langue al 12% di completamento nel pc di casa), così dopo mesi di inattività scelgo di acquistare questo titolo, compatibile con i massimi requisiti del mio notebook (in realtà estremamente minimi per il mondo dei videogame): suddiviso in 5 episodi, usciti a distanza di due mesi l’uno dall’altro nel 2015, racconta la storia di Maxine Caulfield, una post adolescente che torna nella città d’origine per frequentare la Blackwell, una prestigiosa scuola d’arte cercando di inseguire il sogno di diventare una fotografa di successo.
La prima mezzora, sostanzialmente, mi fa tentennare parecchio, portandomi a pensare a come avrei potuto meglio impiegare il denaro speso (si, sostanzialmente mangiando): problemi adolescenziali, amicizia, bullismo, invidie, moda, droghe, alcol, gruppi e gruppetti, fidanzamenti, ammmmmore con la m maiuscola, le interrogazioni (argh!)… tutte cose che ti fanno ringraziare il cielo ogni giorno e baciare per terra dove è più sporco per aver chiuso definitivamente con le problematiche di quell’età e vivere con gioia la tua stabilità socio-emotiva (anche se ovviamente come chiunque farei carte false per tornare ad avere 18 anni… con l’esperienza di oggi).
Poi il gioco, cambia, cercando di scattare una foto una farfalla blu che dentro di se porta il fardello di una caterva di metafore, ben mischiate fra loro. La visione di un tornado che minaccia la città, l’omicidio a cui involontariamente assistiamo dentro il bagno delle ragazze, la ricerca di una ragazza scomparsa mesi prima, la scoperta che possiamo riavvolgere il tempo per rivedere le nostre scelte: tutti questi elementi entrano in campo senza preavviso nel giro di 15 minuti, a metà del primo episodio. La componente fantasy, il giallo da risolvere e l’incombente minaccia di una apocalisse; è come se il gioco d’un tratto ti dicesse: “Ehi, man, stavamo scherzando! Da adesso in poi, sei mio!“.
Ma fin qui sarebbe solo una bella storia, come tante altre (oddio, poche fatte così bene, in verità). L’asso nella manica di Life is strange è la ramificazione del percorso, in cui il personaggio DEVE effettuare delle scelte lungo tutti i 5 episodi (di solito quattro significative e una decina di altre minori) ed ognuna di queste porta a delle conseguenze future nella storia e nello sviluppo dei personaggi. Insomma, man mano che procedi con l’avventura, il personaggio non è più solo Max, la ragazzina introversa con le lentiggini, ma tu, possibilmente omone grande e grosso, con le tue idee ed il tuo modo di pensare, racchiuso nel corpicino virtuale di Max.
Questa empatia con il personaggio, che si sente già forte nel secondo episodio in cui si costruisce pian piano la tipologia di amicizia che ci legherà a Chloe, la nostra migliore amica d’infanzia a cui abbiamo salvato la vita riavvolgendo il tempo la prima volta e si inizia a comporre la macrostoria che avvolge l’intera avventura e i personaggi di Arcadia Bay, rende possibile il vero miracolo: ovvero la capacità di far fare a noi giocatori un viaggio nel tempo, portandoci a vivere emotivamente in prima persona non solo i tormenti di quell’età del ca**o così difficile, ma soprattutto l’avventura di Max e del mondo che la circonda.
Un mondo, poi, splendidamente arricchito da un colonna sonora ricercata, da una fotografia mozzafiato, da un gameplay (tipologia di interazioni fra giocatore e personaggio, devo proprio spiegarvi tutto?) che si limita davvero all’essenziale, da dialoghi molto ben caratterizzati e dall’ottimo approfondimento e sviluppo dei personaggi. Insomma è un gioco a mio parere sembra estremamente distante da qualsiasi altra cosa abbia mai visto prima, se non a delle vecchie storie “a bivi” lette su Topolino e poi in alcuni libri costruiti ad arte.
ATTENZIONE
Se vi ho convinti a provare il gioco, fermatevi qui. Sappiate solo che merita, tantissimo.
Tornerete a leggere il resto dell’articolo sicuramente stravolti, non appena avrete finito.
Se invece non siete interessati a rovinarvi la sorpresa e non vi ho convinto a provare questo gioco, cliccate il pulsante sotto
Il confine che distingue una bella avventura da un qualcosa che ti resta dentro, ti tormenta durante la giornata, ti costringe a riflettere su ciò che hai fatto come se fosse in gioco la tua vita, è estremamente sottile e difficilissimo da raggiungere.
Fatalmente, ti accorgi di averlo superato senza essertene reso conto solo alla fine del terzo episodio, quando pensi di essere riuscita (o riuscito?) a mettere tutte le cose a posto, tornando indietro nel tempo e restituendo alla tua amica Chloe (in perenne conflitto con il patrigno attuale) il buon padre deceduto, nascondendogli al momento opportuno le chiavi dell’auto, facendogli perdere il tempo necessario ad evitare l’incidente mortale.
Così, felice, bussi alla sua porta e… la trovi su una sedia a rotelle, paralizzata dal collo in giù, a seguito di un incidente successivo, una tragica fatalità.
Per i primi quaranta lunghissimi (e lentissimi) minuti di gioco del quarto episodio, pieni di dialoghi e ricordi d’infanzia, più da guardare che da giocare, ti muovi con lei, vivi con lei, comprendi il suo dolore, sei DAVVERO lì con lei, finché, mentre ancora stai riflettendo sulle tue azioni (fondamentalmente un “ne è valsa la pena?”) lei ti chiede, dopo averti confessato che il tuo ritorno è coinciso con il più bel giorno della sua vita dopo l’incidente… di farla finita e tu… tu non puoi andare avanti nella storia se non clicchi “SI” o “NO”.
Ricordo il computer fermo su quella scena durante il mio pranzo. “SI” o “NO”. Ricordo al mio rientro la sera dal lavoro, ancora il computer bloccato in quella domanda che attendeva una mia risposta. “SI” o “NO”.
La consapevolezza di poter tornare indietro e rispondere diversamente non era una consolazione: non era più Max a rispondere, ma io, se mi fossi trovato in una situazione simile. La risposta che avrei dato nel gioco, probabilmente sarebbe stata la risposta che avrei dato nella vita reale, dove (ancora) non si può tornare indietro, MAI.
Brividi che avverto tutt’ora, anche perché questo non era certo l’unico colpo da KO che mi hanno riservato gli ultimi due episodi, anzi ne rappresentava solo l’inizio. Fra rapimenti, risse, fenomeni naturali inspiegabili, spari, litigi e cupe feste universitarie, ogni volta che tutto sembrava risolversi per il meglio, saltava fuori un problema da risolvere, ogni volta che una situazione veniva risolta manipolando lo scorrere del tempo, il tornado dell’incubo – evidentemente collegato ai miei continui rewind -, prendeva forza, fino a renderci conto che ogni possibile soluzione che ci si prospettava, anche la più rosea, si portava dietro una brutta fine per Chloe, e ad introdurre, quasi in punta di piedi, un nuovo protagonista, forse IL protagonista indiscusso dell’intera storia: il destino.
Infine, trascinato dall’arrivo del tornado che presumibilmente spazzerà via l’intera città, ti troverai di fronte alla scelta finale, l’unica dopo la quale non ti sarà più permesso tornare indietro, ma scorreranno inevitabilmente i titoli di coda. E sarà il finale che TU hai scelto e che, in parte, ti aiuterà a capire davvero chi sei.
FINE SPOILER
Quindi, cari lettori miei, un giudizio complessivo su queste 15 ore di attività legata a Life is Strange?
Si, ne vale la pena.
Note:
- Le immagini sono tratte dalla rete, se sto violando qualche (decina di ) norme sul copyright, rimuoverò tutto immediatamente.