Day 309
Cerea, neh!
22/07/2018
Mia cara Torino, questa sarà la nostra ultima sera insieme.
Inutile negarlo, sai benissimo che non sono stato immediatamente entusiasta di venire a vivere da te. Avevo già una casa, una famiglia, un mondo concreto e felice, costruito intorno a me. Sono venuto da te ammaliato con le lusinghe della stabilità economica, forte del “posto fisso” zaloniano con il quale mi hai tirato verso te quasi a forza, con la risolutezza di chi sa come mettere una persona con le spalle al muro.
La mia testa si abbasso nel 2016, all’alba del 13 Agosto ti trovai come destinazione designata e, per quanto tu fossi la mia prima scelta del Nord Italia, piansi a dirotto come non facevo da quei maledetti rigori del 1994. Certo, non credo sia il caso che tu ti debba montare la testa: il Sud, in cui si piange due volte – quando arrivi e quando te ne vai, – è un’altra cosa. Stasera non piangerò.
Sono venuto a scriverti il mio addio proprio dove abbiamo trascorso la prima sera, nel settembre di due anni fa: sul suggestivo belvedere del Monte dei Cappuccini, quando mi affacciai giù a cercare con lo sguardo delle sagome che allora conoscevo a malapena dalle fotografie.
Però devo dirlo, fra le aureole spente che mi sovrastano stasera, le stesse che difficilmente dimenticherò illuminate di blu in una notte senza luna dell’anno scorso, in questi due anni ti sei difesa bene.
Ti incontrai due volte nel mio passato, in entrambi i casi da turista di passaggio. Bei posti, sicuramente. In due occasioni fugaci feci lo stesso giro, con la stessa fretta, con la stessa superficialità: Via Roma, da Piazza San Carlo, Piazza Castello, Il Palazzo Reale, Via Po, la Mole, la Gran Madre solo da lontano e Superga irraggiungibile così in alto
Adesso, ognuna di esse mi regala una emozione chiara, definita, un ricordo indelebile legato al tempo trascorso insieme. Il calciatore che posteggia il bolide giallo ocra davanti all’Apple Store in Via Roma, incurante della decina di norme infrante per arrivare lì; il senso di angoscia provato per Piazza San Carlo durante la finale di Champions, da me evitata solo casualmente, una lunghissima sera in Piazza Castello con i colleghi amici, a chiacchierare intorno ad una bottiglia di “Dormiosa“, da venerata a profanata in pochi attimi; le ore trascorse su una panchina sotto le inferriate di Palazzo Reale a discutere di massimi sistemi, interrotti solo dalle spazzole rotanti del camion dei netturbini,le passeggiate in Via Po che diventavano facilmente mezze maratone; La Mole Antonelliana, con gli occhi sgranati di mia figlia di fronte all’esposizione temporanea “Animal Film Stars” del Museo del Cinema; la Gran Madre con la bellezza del suo riflesso sul Po e i tuoi mistici misteri (chissà dove punterà quel dito?); E infine, la Basilica di Superga: bella, bellissima di per sè, ma se la osservi dopo aver gettato l’anima ed invocato divinità di diverse religioni durante una faticosissima salita in bici per raggiungerla da Sassi, ti sembra davvero celestiale.
Ti immaginavo bella, affascinante, intrigante. Poi mi prendesti con la forza e tutto cambiò. Io e te DOVEVAMO stare insieme, resisterti era futile e vano, seppur controvoglia, compresi che dovevo pian piano lasciarmi prendere, persino sedurre. Sapevo benissimo che nelle tue intenzioni era già previsto che mi tenessi per sempre con te, attirando qui anche il resto della famiglia, come è già successo a tante, troppe persone in passato.
Stavi quasi per riuscirci. Pian piano mi sono aperto a te, al tuo fascino, alle tue storie, soprattutto a ciò che ancora non conoscevo. L’amore a prima vista con i colori di Piazza Statuto, vicino casa, con il suo Lucifero al Frejus e la sua porta dell’Inferno poco più in là; la prima di molte passeggiate in Via Garibaldi, sempre rigorosamente senza acquistare nulla; la scoperta del Parco del Valentino, tappa fissa con ogni ospite venuto a trovarmi, con il suo magico Borgo Medievale del quale sconoscevo l’esistenza, i suoi Lampioncini innamorati, con gli scoiattoli che spariscono un secondo dopo che tu hai comprato le noccioline e le lunghe passeggiate a caccia di Pokemon con e per i miei nipoti; i Murazzi del Po, conosciuti subito dopo l’alluvione di quasi due anni fa e visti finalmente rinascere negli ultimi mesi; le Piste ciclabili, che mi hanno visto sfrecciare in lungo e in largo lungo le residenze della Corona di Delizie; il Parco della Rimembranza, una visione mistica una volta raggiunto a piedi dal lungo Po, con la nebbiolina a farti solamente intuire la maestosità del Faro della Maddalena; i giardini della Reggia di Venaria e, soprattutto, il Parco della Mandria, percorso in lungo e in largo a piedi e in bici nella vana speranza di incontrare un Pavel Nedved che fa jogging (invece sono stato attaccato da due Nutrie assassine); gli stadi, naturalmente: l’Allianz Stadium della Juventus, splendida e meravigliosa cornice di uno spettacolo unico (in Champions, poi… vale la pena andarci anche solo per il prepartita) e il lo Stadio Olimpico Grande Torino, dove si sente davvero il battito del cuore dei tifosi del Toro.
Faccio ancora due passi, mi fermo sulle scale della Gran Madre. Continuo a scriverti osservando la gente che mi passa di fronte in questa sera d’inizio Agosto. Molti sono felici, ci sono tante coppie, qualche gruppo di amici, ogni tanto una persona sola passeggia fermandosi a guardare il riflesso delle luci sul fiume Po. Dall’altra parte si vedono i tavolini dei bar in piazza Vittorio ancora pieni di gente, impegnata negli ultimi “apericena” della giornata. Ricordo che ero seduto nello stesso gradino sei mesi prima, durante il periodo del Burian, il grande freddo, a -5° con guanti pesanti e cappello di lana. La splendida Piazza Vittorio, in ogni caso, aveva solo un vestito diverso, era un po’ meno affollata… il suo fascino era immutato, come sempre.
Non ho fatto una grande vita sociale, prevalentemente per mia scelta, non ho frequentato locali né fatto follie da voler dimenticare in fretta. Ho comunque avuto modo di conoscere parecchie persone attraverso il mio lavoro. I torinesi purosangue, in totale, li posso contare sulla punta delle dita, e nonostante tutto non potrei neanche essere particolarmente della loro autenticità. Moltissimi figli di immigrati del centro-sud Italia nel periodo del boom economico e dello strapotere FIAT: una seconda generazione che ha reso la città accogliente e meno fredda di quanto si dice. Il “torinese-falsocortese”, salvo rare eccezioni, è poco più che una leggenda metropolitana, proprio perché scarseggiano i torinese. Paradossalmente ho avuto più problemi con meridionali che rinnegavano le proprie origini e cercavano di atteggiarsi a “Gente civilizzata del Nord“. Più probabilmente, non ho fatto in tempo ad accorgermene io, anche perché i cicli temporali torinesi sono rigidissimi: ho imparato che la gente qui segue le stagioni, cortili e parchi deserti da settembre in poi che improvvisamente esplodono di vita all’inizio della primavera.
Magari sarò anche stato fortunato nella mia personale esperienza: lungo le tue strade e il mio percorso ho visto ragazze con il velo passeggiare insieme alle amiche in shorts, ho giocato a calcetto con italiani del Nord e del Sud, con arabi e senegalesi in dei campetti griffati da Zidane, ho scherzato insieme a signore benestanti e persone in difficoltà economiche, senza mai avvertire fra di loro il disagio e la diffidenza del diverso. Mi sono sentito dire “Stai attento al mercato di Porta Palazzo“, senza poi trovare nulla di diverso da un mercato popolare del Sud (ad eccezione delle nutrie arrostite e conservate nei cartoni della frutta, naturalmente). Nessuno mi ha mai fatto sentire davvero “diverso”, ad eccezione del vicino di pianerottolo che mi ha salutato per la prima volta solo al sedicesimo mese… ma lì credo il problema fosse suo.
Devo ammettere, inoltre, che mi hai fatto mangiare bene, tanto e in modo sempre diverso, dalle eccellenze di Eataly al kebab, dal sushi alle panelle, ho conosciuto il gusto del mondo durante le esposizioni di Terra Madre e ad apprezzato specialità etniche nei vari festival (Orientale, Western, Irlandese, Giapponese, Canavese, Chissadovese…). Naturalmente, ho apprezzato anche le tue specialità tipicamente piemontesi: (fatta eccezione per il dolce tipico, il Bonet, che ho provato in una decina di posti differenti trovandone dieci versioni profondamente diverse) ho apprezzato i tajarin, la carne cruda, la fassona, fatto indigestioni di vitello tonnato, e, soprattutto, la leggendaria bagnacauda. Ho fatto la fila sotto la pioggia di fronte la Consolata per gustare il Bicerin originale, sono diventato conoscitore di vini piemontesi con preferenze spiccate per il Dolcetto d’Alba e il Passito di Caluso. Ogni speranza di dimagrimento legata alla privazione e alla lontananza da casa è poi naufragata nell’offerta pressoché infinita del centro commerciale a 25 metri da casa.
Inizio a salire lungo Via Po, e dopo una piccola deviazione, mi fermo sulle panchine di fronte Palazzo Carignano, pensando a quanto mi hai fatto crescere anche culturalmente.
E’ già notte, c’è ancora un sacco di gente, che mi guarda storto mentre scrivo vorticosamente su un block notes, ignorando – e per me è una cosa molto strana – decenni di tecnologia. Ho visitato il Museo del Risorgimento alle mie spalle in una prima domenica del mese, usufruendo dell’ingresso gratuito e sentendomi intrinsecamente uno scroccone. Bello, davvero, in particolare la sala della Camera Subalpina, con la suggestione di ciò che poteva discutersi lì dentro 150 anni prima. Allo stesso modo ho trovato molto ben fatto il Museo dell’Automobile, studiato apposta per coinvolgere il visitatore, così come il Museo del Cinema. I palazzi reali, – qui qualcuno sobbalzerà sulla sedia – in fondo sono tutti abbastanza simili; nel “tuo” ho apprezzato ciò che ho trovato di particolare: la Galleria Beaumont che ospita l’Armeria Reale. Paradossalmente le residenze esterne, Venaria Reale, Rivoli, Il Castello della Mandria, Stupinigi… sono più affascinanti perché circondate dai loro splendidi parchi. Infine il Museo Egizio, che forse consideri come il tuo fiore all’occhiello; purtroppo devo dirti che non mi ha entusiasmato – qui faccio cadere per terra chi era precedentemente sobbalzato con conseguente commozione cerebrale -, probabilmente per le aspettative alte che riponevo in esso. Intendiamoci: reperti di inestimabile valore, collezioni estremamente interessanti, ma un’esperienza di visita piuttosto piatta, in una impostazione troppo classica che non mi ha mai lasciato a bocca aperta. Ma i gusti sono soggettivi e sono sicuro che la maggior parte dei visitatori del museo ti farà una buona pubblicità.
Sai, in questi mesi, ti ho guardata molte volte dall’alto: Dall’ascensore panoramico della Mole, da Superga, dal Monte dei Cappuccini e dalla mongolfiera Turin Eye. T’ho vista persino dalla Sacra di San Michele, all’imbocco della Val di Susa in cui andavo a fare le mie escursioni in Mountain Bike, scorgendo a distanza i grattacieli di Corso Inghilterra e del Lingotto. Ho usato decine di volte la Basilica di Superga come punto di riferimento spaziale, sostituendo in una profondamente blasfema associazione – date le mie origini – la benevola sagoma dell’Etna. Ogni gita fuori porta si concludeva quando la sagoma della basilica appariva in lontananza: l’ho vista tornando dal Lago Maggiore, dalle città delle langhe, del cuneese e del canavese, rientrando da giornate in cui ho riscoperto il piacere di andare a sciare, una passione che per motivi geografici (ed eruttivi) avevo represso per oltre 20 anni (e sciare sulle Alpi è un’emozione infinita: Bardonecchia, il Monginevro, Gressonney, il comprensorio della Via Lattea e soprattutto la splendida Pila, di gran lunga la più bella fra le mie esperienze sciistiche).
Fra le tante cose che mi hai insegnato, ce ne sono anche alcune alquanto bizzarre o delle quali avrei anche fatto a meno: la curiosa abitudine locale di bypassare le indicazioni dei semafori dopo le 22.00, il posteggio creativo lungo la linea di mezzeria, i locali che avvisano i clienti della imminente chiusura già alle 22.00, la “buonanotte” che viene considerata un saluto troppo “intimo”, la necessità di coprirsi naso e bocca quando nelle sere di’inverno, lo smog era troppo denso per permetterti di respirare liberamente, l’indispensabilità del “raschietto” quando in inverno posteggi di sera all’aperto.
So bene di non averti conosciuta fino in fondo, che ci sono innumerevoli aspetti di te che avrei ancora potuto scoprire, da solo o in compagnia, però il tempo è tiranno e mi ha lasciato soltanto due anni (o “ben” due anni) per viverti. Forse era giusto così, era scritto che la nostra storia si concludesse in questa calda sera d’estate. Avrei voluto scoprire altri tuoi segreti che solo con il tempo sarebbero venuti fuori, avrei voluto trovare il tempo per vedere un’opera al Teatro Regio, avrei cercato di scambiare due palleggi con Cristiano Ronaldo. Ma, ormai, è finita.
Insomma, adesso che torno camminando verso quella che potrò chiamare casa per l’ultima volta, osservo con un velo di malcelata nostalgia tutte queste esperienze. Hai preso per te due anni della mia vita, direi un ventunesimo se solo non mi facesse così male pensare a quanti ne ho davvero. Ho provato a mettere tutte queste esperienze su un piatto della bilancia con, dalla parte opposta, il dolore causato – ai miei cari, soprattutto – dalla separazione semi-forzata dalla mia terra e soprattutto dalla mia famiglia; nonostante sia riuscito a tornare giù quasi settimanalmente per mitigare quest’ultimo aspetto, per la gioia dell’efficientissima Blue Air, la bilancia, impietosa, non ha mai smesso di inclinarsi verso quest’ultimo lato.
Così domani mattina, restituirò le chiavi della mia casa al Parco Dora, passerò per l’ultima volta dalle strade ormai familiari del quartiere e, rigorosamente sotto i 70km/h, andrò via dallo stesso Corso Regina Margherita che mi ha accolto la prima volta, lasciandoti per sempre.
Non tornerò ancora alla mia vera casa; purtroppo o per fortuna mi sposterò nei pressi di Roma, pronto a vivere un’altra bella storia, proprio come questa che si sta concludendo con te. Sarà più vicina a casa e sicuramente più complessa, ma magari riuscirà a farmi innamorare anche lei… Non posso saperlo, il futuro è ancora tutto da scrivere.
Ciò che è certo è che, un giorno lontano, quando tornerò da te da turista o più probabilmente per la laurea al Politecnico del nipote che hai già ammaliato, magari scorgerai in me un lieve luccichìo negli occhi e mi farai un ultimo, commosso, cenno d’intesa.
Perché è chiaro che non ti dimenticherò mai.
e bòn!
Ciao, Torino.
Cerea, neh!